Folklore Orientale

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Kimu
view post Posted on 21/12/2011, 18:10 by: Kimu




Cha no yu



Cha-no-yu



La cerimonia giapponese del tè



Il Giappone conosce il tè intorno all’800 d.c., grazie all’opera dei viaggiatori del Sol Levante in Cina per apprenderne la cultura, nello specifico le dottrine che animavano il paese in quegli anni. In particolare è da ricordare la figura di Saichō, padre della scuola Tendai che portò le prime sementi di tè nel proprio paese. Il tè però rimarrà per circa 4 secoli relegato all’uso dei monaci nei templi, che ne bevevano per corroborare il corpo e lo spirito per rimanere più svegli durante le ore di veglia notturna. Si dovrà aspettare l’opera del monaco tendai Eisai perchè il tè si diffondi per tutto il Giappone; di ritorno da uno dei suoi viaggi dalla Cina, portò nuove sementi della pianta del tè, ed al tempo stesso nuove conoscenze nell’ambito della dottrina Zen; da questi si porranno le basi da un lato per la diffusione della bevanda nel paese (passando dapprima per gli ambienti aristocratici e per poi arrivare al resto della popolazione) e dall’altro pone le prime basi per lo sviluppo del Cha no yu.
Sviluppo che richiederà secoli per essere decodificato così come è conosciuto oggi, attraverso l’opera dei Maestri del tè che ne definiranno i connotati, grazie anche al fatto che con la loro dottrina riusciranno ad influenzare anche le sfere di potere nel paese, permettendo quindi una diffusione di quest’arte. Dopo la morte di Eisai, ci sarà una sorta di “stallo” di questa evoluzione, con la cerimonia che rimarrà relegata agli ambienti aristocratici e che assumerà connotati sfarsozi in contrasto con i dettami Zen impartiti da Eisai; questa cerimonia diverrà poi nota col nome di tōcha.
Occorrerà aspettare il monaco Zen Murata Shukō (村田珠光, 1423-1502) che, sotto la guida del maestro Ikkyū Sōjun (一休宗純, 1394-1481) introdurrà il concetto del Wabi-cha, che diverrà la base per tutto lo sviluppo futuro della cerimonia. Il wabi-cha vuole richiamare il concetto di sobrietà e semplicità del rito, idee proprie della dottrina Zen; al tempo stesso mantiene un comportamento “flessibile”, permettendo di svolgere la cerimonia attraverso stili e forme diverse.
Nello specifico, Murata elabora la cerimonia del Chado, che si basa sul principio di “leggere il Dharma del Buddha anche nella bevanda del tè”, in relazione con i concetti del wabi-cha. Murata introdurrà aspetti rituali basilari per la cerimonia: l’uso di oggetti per la preparazione del tè semplici e di cultura contadina, l’introduzione del chashaku (茶杓) in bambù (il chashaku è il sottile cucchiaio in bambù usato per mettere il matcha, il tè usato per il cha no yu, dal suo contenitore alla tazza), la definizione delle misure della stanza da tè pari a quattro stuoie (tatami) e mezzo. Il legame con la dottrina Zen è evidente in tutti gli aspetti introdotti da Murata. Si pensi solo alle misure della stanza; sono determinate in base ad un passo del sutra di Vikramaditya, dove in un passo si dice che accolga il santo Manju insieme ad 84.000 discepoli del Buddha in una stanza di queste dimensioni, richiamando l’immagine della non esistenza dello spazio per i veri illuminati.

murata Murata Shukō




Nello specifico, Murata elabora la cerimonia del Chado, che si basa sul principio di “leggere il Dharma del Buddha anche nella bevanda del tè”, in relazione con i concetti del wabi-cha. Murata introdurrà aspetti rituali basilari per la cerimonia: l’uso di oggetti per la preparazione del tè semplici e di cultura contadina, l’introduzione del chashaku (茶杓) in bambù (il chashaku è il sottile cucchiaio in bambù usato per mettere il matcha, il tè usato per il cha no yu, dal suo contenitore alla tazza), la definizione delle misure della stanza da tè pari a quattro stuoie (tatami) e mezzo. Il legame con la dottrina Zen è evidente in tutti gli aspetti introdotti da Murata. Si pensi solo alle misure della stanza; sono determinate in base ad un passo del sutra di Vikramaditya, dove in un passo si dice che accolga il santo Manju insieme ad 84.000 discepoli del Buddha in una stanza di queste dimensioni, richiamando l’immagine della non esistenza dello spazio per i veri illuminati.
L’epoca di Murata è importante nell’ambito del Cha no yu anche grazie alla presenza dell’ottavo shōgun del clan Ashikaga, Yoshimasa (足利義政, 1435-1490) che, dopo essersi ritirato dall’incarico di governo, si trasferì in una villa-tempio fatta da lui costruire nel 1473 a nord-est di Kyōto, residenza denominata Jishō-ji (慈照寺) e conosciuta anche come Ginkaku-ji (銀閣寺, “Padiglione d’argento”). Yoshimasa trascorse in questa villa il resto dei suoi giorni, promuovendo incontri di poesia e di arti tradizionali. Venuto a conoscenza del Cha no yu elaborato da Murata Shukō, lo invitò a mostrargli le “nuove” regole cerimoniali. Affascinato dalla “nuova” arte tradizionale zen, Yoshimasa divenne subito un attivo promotore della Cerimonia del tè. Per questa ragione, il Ginkaku-ji è considerato, tradizionalmente, il luogo di nascita del Cha no yu.

Ginkaku-ji Il tempio Zen Ginkaku-ji, detto anche "Tempio dal padiglione d'argento"



Per alcuni decenni, in particolare a causa delle guerre che dilaniavano il paese in quell’epoca, lo sviluppo del cha no yu rimase fermo fino all’avvento di un altro monaco Zen, Takeno Jōō (武野紹鴎; 1502-1555). Takeno, che per molti anni si interessò alla scrittura ed in particolare al Renga (tipo di composizione poetica giapponese) amplia i concetti di base del wabi-cha, legandolo anche ad aspetti della poesia waka (和歌) ed alla dottrina della Via dell’Incenso (香道, Kōdō). Modifica la cerimonia eliminando il mizuya (lo scaffale per gli utensili) e disponendo gli utensili direttamente sul tatami, imponendo solo l’uso di legno grezzo per il tokonoma, aprendo all’usanza di porre il ro (il focolare sopra il quale si scaldava il bollitore per l’acqua) direttamente nella stanza della cerimonia, ereditata direttamente dalle usanze contadine.
Ma fu il terzo grande Maestro del tè a permettere lo sviluppo più importante del cha no yu: il monaco Zen Sen no Rikyū (千利休, 1522-1591). Rikyū iniziò lo studio del cha no yu all’età di 17 anni, ed all’età di 19 divenne discepolo proprio di Takeno Jōō, per 15 anni. Sotto Rikyū il concetto del wabi-cha raggiunge la sua massima espressione; la sua stessa vita e gesta richiamano in ogni momento i concetti della cultura Zen e del Teismo. L’importanza di Rikyū non è solo legata alle evoluzioni “pratiche” della cerimonia, ma anche a come ogni singolo aspetto venga messo in relazione con la vita stessa; questo, unito all’amicizia (ed al ruolo di funzionario) che svilupperà prima con lo shōgun Oda Nobunaga e poi con lo shōgun Toyotomi Hideyoshi, permetteranno di diffondere la cerimonia sia nell’ambiente dei samurai e poi alla corte imperiale, e pariteticamente anche al resto della popolazione. Particolarmente significativi furono i ricevimenti che tenne alla corte imperiale, in particolare quello da lui promosso nel 1585, dove per la prima volta venne presentata la cerimonia proprio davanti all’imperatore Ōgimachi, che conferirà a Rikyū il nome onorifico buddhista Rikyū Koji. Particolarmente importante fu il ricevimento del 1587; ideato insieme all’aiuto di Toyotomi Hideyoshi presso il Kitano Tenman-gū (北野天満宮, un tempio shintoista a Kamigyō-ku nei pressi di Kyōto), permise di invitare persone di diverse estrazioni sociali e culturali. Il grande ricevimento del 1587 fu uno degli ultimi episodi dell’amicizia tra lo shōgun Hideyoshi e il maestro del tè; gli eventi successivi portarono Rikyū ad inimicarsi Hideyoshi, cosa che porterà il Maestro del tè a compiere seppuku (il suicidio).

Sen-no-Rikyu-statua Statua raffigurante Sen no Rikyū



Sotto Rikyū arrivano a pieno concepimento molti degli aspetti che caratterizzano il Cha no yu anche oggi. L’uso di luci soffuse per la stanza opportunamente filtrando quella che proviene dall’esterno, l’uso di una porta alta non più di un metro per l’ingresso, il completo sviluppo nell’uso dei fiori da mettere nel tokonoma, l’utilizzo di una scritta al posto di un dipinto sempre nel tokonoma, il recupero di alcuni aspetti del wabi-cha che dopo la prima introduzione si erano persi… la stanza da tè diventa un qualcosa che si vuole armonizzare con le persone e gli oggetti presenti. Al suo interno, lo scopo è quello di reggiungere l’armonia tra ospiti e padrone, dove non esistono più differenze legati alla classe sociale; la cerimonia diventa un modo per raggiungere la tranquillità interiore, assumento connotati più spirituali.

Erede di Rikyū fu Furuta Oribe, e di seguito a lui Kobori Enshu, ma l’eredità di pensiero fu tramandata dal suo genero Shōan Sōjun (1546-1614) cui seguì il figlio Genpaku Sōtan (1578-1658). Questi rivalutò il legame della cerimonia col tempio Daitoku-ji. Alla sua morte, divise nel testamento i suoi beni immobili tra i suoi 3 figli (ne aveva un quarto, ma il primogenito morì). Da ognuno di loro il culto del Cha no yu si evolse in maniera differente, portando alla fondazione di 3 scuole distinte, e tutte e 3 sono quelle ancora in uso nella tradizione giapponese. Anche per questo motivo Rikyū viene spesso indicato come il vero fondatore della cerimonia del tè. I nomi delle tre scuole ancor oggi presenti sono: Omotesenke, Urasenke e Mushanokojisenke.

Toyotomi-Hideyoshi-1 Lo shōgun Toyotomi Hideyoshi



Taoismo e Zen

La cerimonia del tè giapponese è un rito prettamente Zen. Il Buddhismo Zen è una dottrina che deriva dal leggendario monaco buddhista Bodhidharma, che per primo pose le sue basi. Concettuamente deriva dal Buddhismo, ma a livello “filosofico” possiamo definirlo come un’evoluzione del Taoismo. Il Taoismo è una dottrina affermatasi in Cina, il cui fondatore è Lao-Tzu.

Lao-Tzu Rappresentazione di Lao-Tzu



Il termine Tao può essere tradotto in diversi modi; letteralmente significa “sentiero”, ma può essere tradotto anche come Via, Assoluto, Legge, Ragione, Natura, Metodo, riflettendo il fatto che gli stessi taoisti usano il termine in modo diverso a seconda del contesto. Esemplificando, il taoismo è la rappresentazione del “passaggio”, lo spirito del mutamento cosmico delle cose, l’eterno sviluppo che ritorna ogni volta su se stesso. Non a caso uno dei simboli prediletti del taoismo è un drago che si ritorce su se stesso. Il Tao quindi, più che rappresentare il “sentiero” delle cose, rappresenta la “transizione”. Dal punto di vista del soggetto, è il modo di essere dell’Universo. Ne consegue che il punto di vista del taoista è da una parte assolutamente individualista, dall’altro implica che i suoi valori assoluti sono relativi.
Questo porta a definire che non esiste un “giusto” od uno “sbagliato” nelle cose; tutto è relativo e niente può essere definito in maniera assoluta, al di sopra di chiunque; il definire vuol dire “limitare”, ed il limitare porta all’immutabilità delle cose che implica un arresto dello sviluppo. Ma il maggior contributo dato dal Taoismo nella cultura asiatica è quello della ricerca delle bellezza. Una delle particolarità di questa dottrina è quella di occuparsi del presente, non di guardare con nostalgia al passato o di cercare di comprendere il futuro. Gli storici cinesi indicano il Taoismo come “l’arte di stare al mondo”. Citando le parole di Kakuzo Okakura: “Il presente è l’infinito in movimento, la legittima sfera del Relativo. Il Relativo cerca l’Armonia, e l’Armonia è Arte. L’arte del vivere consiste in una continua ricerca di armonia rispetto a quello che ci circonda. Il Taoismo accetta l’esistente così com’è, e diversamente dal confucianesimo e dal buddhismo cerca di trovare la bellezza in questo mondo di sofferenze e di affanni.”
siste una famosa allegoria in Cina per evidenziare quest’aspetto: Buddha (rappresentante il Buddhismo), Confucio (del Confucianesimo) e Lao-Tzu (Taoismo) un giorno si trovano davanti una brocca piena d’aceto, che rappresenta la vita. Tutti e tre intingono il dito e l’assaggiano. Buddha lo trova amaro, Confucio acre, mentre Lao-Tzu dolce. I Taoisti quindi si sforzano di trovare ciò che di bello, di armonioso c’è nella vita. Per far ciò però è necessario conoscere la vita stessa, alla stessa maniera di come un attore interpreta la sua parte al meglio conoscendo l’intero copione. Il senso della totalità non deve mai perdersi in quello dell’individuo. Per spiegare questo concetto, Lao-Tzu soleva usare la metafora del vuoto. Solo nel vuoto possiamo trovare ciò che è veramente essenziale. Se prendiamo ad esempio una stanza, la sua realtà non va cercata nelle pareti, nel pavimento o nel soffitto, bensì nello spazio vuoto delimitato da quelle pareti. L’utilità di una brocca d’acqua non stà nella brocca in se, ma nello spazio vuoto nella quale possiamo mettere l’acqua. In campo artistico questo aspetto si esprime nella capacità d’immaginazione di ognuno di noi; attraverso quello che non è stato espresso offriamo all’osservatore la possibilità di completare l’idea di quell’opera. C’è un vuoto per consentirci di entrare e colmarlo, in base al nostro modo di vedere le cose.
Queste idee sono alla base della dottrina Zen; di più, si ampliano ed accentuano rispetto al Taoismo. Il termine Zen significa meditazione; solo attraverso la meditazione sacra è possibile raggiungere la suprema realizzazione di noi stessi. Secondo il Buddhismo, la meditazione è il principale modo attraverso il quale è possibile raggiungere lo stato di Buddha, e questa conoscenza è ben fondata nella dottrina zen, in quanto fu trasmessa da patriarca a patriarca buddhista nei secoli fino a Bodhidharma, il fondatore della dottrina Zen.
Lo Zen ha diversi punti di contatto con il Taoismo; entrambe le culture si basano sul concetto che l’Assoluto è il Relativo, e tutte e due sono fautrici dell’individualità. Niente è reale, se non quello che esiste nella propria mente. Un’allegoria esprime chiaramente questi concetti fondamentali: un giorno, il taoista Soshi passeggiava lungo la riva del fiume in compagnia di un amico, ed esclamò: “Come si divertono i pesci in acqua”. L’amico allora disse: “Tu non sei un pesce, come fai a sapere che i pesci si divertono?” e Soshi a sua volta disse: “Tu non sei me. Come puoi sapere che non so che i pesci si divertono?”
Lo Zen riconosce pari valori tra le cose della sfera materiale e quelle della sfera spirituale. Al tempo stesso, non esistono differenze tra cose piccole e cose grandi; un atomo riveste la stessa importanza dell’Universo stesso. Da questi aspetti fondamentali deriva il concetto che per riecercare la perfezione è necessario scoprire nella propria vita il riflesso della luce spirituale. Questi fondamenti si riflettono non solo negli scritti o nei dogmi della dottrina Zen, ma anche in ogni singolo gesto o aspetto della vita quotidiana. Se prendiamo il tipico monastero Zen e ne studiamo l’organizzazione, noteremo che tutti (escluso l’abate) hanno un preciso compito da assolvere nel monastero, e che ai novizi spettano le mansioni più leggere, mentre ai monaci più rispettati ed anziani le mansioni più faticose ed umili. Queste attività sono parte integrante della disciplina Zen, e devono ovviamente essere compiute nel modo migliore possibile.
Questi aspetti, alla base della dottrina Zen, sono di conseguenza alla base del Teismo e della Cerimonia del tè Giapponese; il Teismo ha come ideale quello di cogliere la grandezza anche nelle cose più piccole della vita. Lo Zen è la rappresentazione pratica dei concetti del Taoismo da un certo punto di vista, ed il Teismo possiamo considerarlo una di queste rappresentazioni.

La filosofia del Cha No Yu
Il Cha no yu si basa su 4 principi fondamentali:

1 Wa, cioè Armonia, che si esprime attraverso le relazioni tra gli ospiti, tra gli ospiti ed il padrone di casa, tra gli oggetti, tra i suoni e tutto quello che esiste. Le relazioni così instaurate si rifanno alla concezione Zen, in cui l’effimero delle cose si riflette nel loro continuo mutamento, ma dato che solo quello che è nella nostra mente è reale, questo effimero sale al valore di realtà ultima delle cose. Tale principio si basa sul distaccarsi da ogni estremismo e presa di posizione, incamminandosi lungo la via della moderazione e della “Via di mezzo”, propria delle dottrine Buddhiste.

2 Kei, cioè Rispetto, sia verso le persone con le quali celebriamo il Cha no yu, sia verso tutte le cose e gli oggetti, con un sentimento di sincera gratitudine per la loro esistenza.

3 Sei, cioè Purezza, intesa nella concezione Zen. Non è quindi la distinzione dall’Impurezza così come la intendiamo (Puro ed Impuro secondo il significato che noi gli diamo partecipano entrambi alla rappresentazione della realtà), e questo aspetto si esprime soprattutto quando si pulisce la stanza per la cerimonia e la si riordina. Significa esprimere ciò che è bello e di farlo emergere, farlo esprimere, renderlo evidente, ed al tempo stesso è una metafora per noi stessi, che ci “puliamo” dei nostri disordini mentali e spirituali, che vanno spazzati dai vincoli mondani e dalle preoccupazioni.

4 Jaku, cioè Tranquillità, rappresenta il fine ultimo della cerimonia che si raggiunge attraverso l’applicazione delle prime 3 virtù. Una volta mondati dalle preoccupazioni materiali e raggiunto lo stato di armonia interiore, chi prepara e beve il tè si avvicina allo stato di Sublime Serenità. Il fatto che la cerimonia avviene in compagnia, vuol dire trovare la serenità in noi stessi in compagnia degli altri.

4-principi-cha-no-yu



l teismo nella società giapponese ha acquisito nel corso dei secoli una grandissima risonanza in diversi campi: non si tratta di una semplice cerimonia per prendere il tè in compagnia, ma di una vera e propria filosofia che, attraverso gli insegnamenti dei maestri del tè che nel corso dei secoli hanno definito il Cha No Yu, ha influenzato l’arredamento, il modo di vestire, il modo di cucinare, la ceramica, la scrittura, persino le abitudini. Questa dottrina ha una tale importanza che quando si parla di una persona insensibile agli eventi della propria vita, si dice di lui che “non ha il tè”; viceversa, chi si trascorre una vita disordinata abbandonandosi a sentimenti troppo esuberanti ed ignorando la tragicità della vita, si dice che “ha troppo tè”. La filosofia del tè è quindi un modo attraverso il quale viene visto l’uomo in relazione con la natura; è igiene in quanto richiede la più rigorosa pulizia, è economia perchè dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nell’ostentatezza, è geometria morale in quanto rappresenta il rapporto tra i nostri sentimenti e l’Universo.

La stanza della cerimonia del tè

Fin qui abbiamo visto che la concezione Zen pone enfasi ed importanza su qualsiasi aspetto della vita che ci circonda. Questo modo di vedere le cose si riflette anche sulla concezione del Cha no yu. Al di là dello svolgimento vero e proprio della cerimonia, con tutta la risualità ed i singoli significati che ogni gesto porta con se, il primo aspetto caratteristico è dato dalla stanza in cui si svolge la cerimonia. Inizialmente, quando la cerimonia doveva ancora essere codificata così come è conosciuta ai giorni nostri, si tendeva a riservare una piccola zona della casa opportunamente delimitata; ben presto però si iniziarono a creare vere e proprie strutture, in genere distaccate dal resto della casa, per la cerimonia.

roji Il roji




La prima cosa che salta all’occhio è la semplicità e l’austerità che sembrano caratterizzare la struttura. La stanza deve trasmettere un’idea di semplicità e povertà ed in genere è molto piccola. Questo però non deve ingannare; in genere queste strutture sono il risultato di un’elaborata concezione artistica e vengono costruite avendo a cura ogni minimo dettaglio, tant’è che in Giappone esistono costruttori edili specializzati proprio per le case per la cerimonia. L’idea di semplicità e povertà rispecchia uno dei principi Zen, che tra l’altro lo differenziano da tutte le altre culture Buddhiste; le stanze per il tè rispecchiano i canoni costruttivi dei monasteri Zen, che non sono luoghi di preghiera o di pellegrinaggio, ma semplici luoghi in cui i monaci discutono tra loro e meditano. Da notare che la cerimonia ha legami anche con le stesse abitudini dei monaci, che solevano riunirsi in una sala comune del monastero, in genere attorno ad una statua rappresentante Bodhidharma, a bere a turno tè da una stessa ciotola.

mizuya Il mizuya



L’intera area è composta da 4 parti: la Sukiya, ovvero la stanza vera e propria per la cerimonia, in genere progettata per accogliere un più di 5 persone; la Mizuya, cioè un’anticamera nella quale gli utensili per la cerimonia vengono lavati e preparati per l’uso; la Machiai, che è un portico dove gli invitati per la cerimonia attendono l’invito ad entrare; il Roji, cioè il sentiero nel giardino che collega il machiai alla stanza da tè.

sukiya Il sukiya. Questo termine è in genere usato come sinonimo del termine Chashitsu (茶室); di norma si usa il termine sukiya per indicare un particolare stile architettonico per la stanza del tè.



L’ospite inizialmente attraversa il roji, il cui significato è quello di spezzare i legami con il mondo esterno e far entrare il proprio spirito in comunione con la natura. Il modo in cui il roji stesso è strutturato richiama a questo concetto; pietre disposte in maniera irregolare, sulle quali si calpestano gli aghi di pino caduti dagli alberi mentre si passa accanto a lanterne di granito ricoperte di muschio sotto la penombra della luce filtrata dai sempreverdi. Le sensazioni che affiorano mentre si percorre questo cammino variavano a seconda di quale Maestro della cerimonia del tè vogliamo rifarci; ad esempio per Rikyu era la ricerca della solitidune, mentre per Kobori Enshu la rappresentazione di un’anima che si è appena risvegliata. Una volta percorso il roji, l’ospite entra infine nella stanza; per far ciò, è necessario passare per una porta in genere non più alta di un metro, che costringe a chinarsi. Questo gesto vuole richiamare il concetto di umiltà nell’ospite. Gli ospiti entrano uno alla volta, e si siedono dopo aver reso omaggio alla composizione floreale od al dipinto collocati nel tokonoma (una piccola nicchia dove si trova tra l’altro appeso uno scritto eseguito da un calligrafo esperto di shodō). Solo a questo punto entra il padrone di casa.

Tokonoma Il tokonoma



La stanza della cerimonia è in genere quasi del tutto sgombra; oltre a quanto si trova nel tokonoma, si trovano nella stanza solo quanto necessita per preparare e bere il tè. La stanza è colorata con colori sobri, e gli stessi ospiti sono tenuti a vestire con abiti poco appariscenti. La luce solare penetra nella stanza smorzata, in modo che la luce non la invadi. Durante la preparazione del tè si siede in rigoroso silenzio; gli unici suoni che si sentono provengono dal bollitore che scalda l’acqua, dalle bolle che si formano e dal particolare suono di piccoli pezzi di ferro che si trovano nel bollitore stesso. Non è neanche possibile avere con se oggetti che fanno pensare ad un acquisto recente, con l’esclusione del mestolo di bambù e del tovagliolo di lino che devono essere nuovi ed immacolati. Altra cosa che salta all’occhio, è lo stato di perfetta pulizia che si ha in ogni angolo ed oggetto della stanza. Non di meno, anche la pulizia della stanza segue particolari riti che vanno eseguiti. Colui che presenta agli ospiti una stanza non in perfette condizioni non può essere considerato un Maestro del tè.
Lo Zen, che si basa sull’impermanenza delle cose e sulla capacità di elevare il dominio dello spirito sulla materia, considera la casa soltanto come un temporaneo rifugio per il corpo. Il corpo stesso è un mero involucro temporaneo. La stanza del tè tende ad evocare questi aspetti attraverso la concezione strutturale: il tetto di paglia, le fragili colonne sottili, la leggerezza dei sostegni di bambù, l’apparente trascuratezza dell’uso di materiali ordinari. Al tempo stesso, la struttura deve essere costruita in conformità al gusto individuale della persona, a riconferma del principio che l’arte è vita.
La stanza è anche denominata come “Dimora del Vuoto”, facendo quindi un chiaro richiamo alla concezione Taoista. La stanza come già detto risulta del tutto vuota, ad eccezione dell’unica decorazione che si trova nel tokonoma. La scelta della decorazione in base alla stazione richiama il concetto di mutabilità, mentre la sola presenza di questa decorazione richiama il concetto di potersi concentrare su quell’unico aspetto dominante, perchè la vera comprensione del Bello è possibile solo se ci si concentra su quell’unico aspetto. Al tempo stesso, la stanza prende il nome di “Dimora dell’Assimmetrico”. La filosofia Taoista e Zen pone più l’enfasi non tanto alla perfezione, quanto al percorso che conduce alla perfezione; ma per intraprendere questo percorso bisogna saper cogliere le vera bellezza delle cose, cosa che si può ottenere solo chi con la propria mente avesse completato l’incompleto. In base a questo concetto, la dottrina Zen evita deliberatamente di ricercare la simmetria nelle cose, e questo aspetto si riflette nella cerimonia del tè, dove il timore della ripetizione diviene una costante. I diversi oggetti dell’arredamento vanno scelti in modo da evitare qualsiasi ripetizione di colori o motivi, se è presente un fiore non sono ammessi dei dipinti raffiguranti fiori, se il bollitore è rotondo il bricco dovrà essere spigoloso, e così via.
Particolare attenzione viene rivolta alla composizione floreale (l’Ikebana, l’arte giapponese della disposizione dei fiori recisi) che viene posta nel tokonoma. Non a caso, si ritiene che l’arte della composizione floreale sia nata nello stesso periodo di nascita del teismo, nel XV secolo. In genere si tratta di una composizione che intende rispecchiare uno specifico tema. Di norma la scelta è in base al periodo stagionale, e più in generale ogni singolo elemento viene scelto con estrema cura, senza mai perdere di vista la composizione artistica che si ha in mente. Da notare che, a differenza della cultura occidentale, non si taglia mai dal fiore niente che non sia strattamente necessario; ad esempio, vengono sempre lasciate le foglie, se ce ne sono, perchè lo scopo è quello di mostrare la bellezza floreale integra nella sua bellezza. Il fiore nel tokonoma è come un principe sul trono; tutti gli invitati, una volta entrati, vi si pongono davanti e si prostrano in un profondo inchino in segno di rispetto; in genere insieme al fiore non viene accostato nulla che possa interferire con l’effetto prodotto, tranne in quei rari casi in cui si abbia un particolare motivo estetico per farlo. Ciò non di meno, va sempre ricordato che questa composizione artistica è comunque sempre subordinata ai canoni principali sui quali si basa la cerimonia; l’opera è pensata in funzione del resto dell’ambiente. Così, ad esempio, fiori dai colori troppo sgargianti sono in genere banditi, così come composizioni troppo ostentate od elaborate.

Svolgimento della cerimonia

La cerimonia del tè è composta da 3 momenti distinti:

- Kaiseki un pasto leggero consumato prima del tè;
- Koicha il tè denso;
- Usucha il tè leggero.

Mentre il kaiseki è un momento comunque presente durante il cha no yu, la cerimonia stessa può essere “suddivisa” in 2 aspetti distinti: quelle del Koicha e dell’Usucha. Dato che la cerimonia, in base a diversi aspetti quali il numero ed il tipo di invitati, la quantità di cibo servita ed altri aspetti, può durare da 20 minuti fino a 4-5 ore ed oltre, spesso non viene compiuta in tutta la sua estensione. Per manifestazioni che richiedono tempi più “stretti”, la parte relativa al Koicha viene in genere saltata, soprattutto per situazioni più “informali”, riservandola in genere per occasioni speciali o cerimoniali
Il “protocollo” per lo svolgimento della cerimonia è estremamente rigido e minuzioso, e ricalca sotto questo punto di vista la “puntigliosità” che già si è avuto modo di notare per la definizione di tutto l’ambiente per il cha no yu. Questo corpo di regole si estende fin alle fasi prima della cerimonia vera e propria, dato che anche l’atto di invito degli ospiti è disciplinato; elementi come il numero di giorni d’anticipo per l’estensione dell’invito (in genere non più di 5) od il numero degli ospiti non sono mere formalità.

Nijiriguchi Il Nijiriguchi, il piccoloingresso dal quale si entra nella stanza del tè.



Di norma, gli invitati vengono fatti attendere nel Machiai, il portico che si trova adiacente alla stanza della cerimonia, fino al momento in cui vengono fatti entrare dal padrone di casa (l’ospite), in genere attraverso un gesto come il bruciare dei sali d’incenso o, più generalmente, suonando un gong. Gli invitati quindi, come abbiamo già visto, attraversano il roji e prima di entrare nella stanza vera e propria sostano a lavarsi le mani ed a sciacquarsi la bocca con dell’acqua contenuta in una pietra incavata; solo ora entrano nella stanza (un tempo i samurai dovevano lasciare le armi al di fuori della stanza, perchè la stanza della cerimonia è un luogo di pace e tranquillità interiore) seguiti per ultimi dall’ospite quindi si fermano ad ammirare e rendere omaggio all’ikebana (la composizione floreale) ed all’opera calligrafica appesa alla parete (il kakejiku) nel tokonoma, prendono visione della zona della stanza in cui verrà bollita l’acqua e finalmente prendono posto attorno al tavolo.
L’ospite porta con se l’acqua e tutta la strumentazione necessaria per preparare il tè. Egli lo prepara direttamente nella stanza in cui lo si berrà; tradizione vuole che l’acqua venga bollita sul ro (d’inverno) o sul furo (d’estate) posto proprio accanto a dove siedono gli invitati. Durante questa fase, gli invitati rimangono in silenzio ascoltando l’acqua che bolle, con in genere il suono prodotto da alcuni pezzi di metallo lasciati nel bollitore stesso. Una volta bollita l’acqua questa viene presa con un mestolo dall’ospite, versata per un terzo in una ciotola asciugata con un tovagliolo di lino (l’acqua restante viene rimessa nel bollitore) e quindi addizionata del matcha (il tè) in genere nella quantità di 3 cucchiaini, per poi essere frullato con l’attrezzatura apposita.
Quando si procede alla fase del koicha, il tè così preparato viene offerto al primo invitato; la ciotola viene posta vicino al focolare, l’invitato si avvicina e prende la tazza tenendola col palmo della mano sinistra ed il bordo con la mano destra. Assaggia un piccolo sorso di tè, ne assapora l’aroma ed il gusto e quindi lo commenta, ne beve altri 2 sorsi e pulisce col tovagliolo il bordo della tazza dal quale ha bevuto per poi passarla all’invitato successivo. Il rito così si ripete invitato per invitato, fino a quando la tazza non torna nelle mani dell’ospite. A questo punto è possibile che l’invitato più importante chieda di ammirare la tazza dalla quale si è bevuto, per commentarne la bellezza e la qualità. Il rito dell’usucha risulta diverso; una volta preparato il tè nella ciotola, il primo invitato ne beve tutto il contenuto, con le dita ne pulisce il bordo e poi si asciuga le mani con il tovagliolo, per poi ridare la tazza all’ospite. Questi pulisce la ciotola e prepara una tazza di tè per l’invitato successivo.

Ro Il ro



Che la cerimonia sia di Koicha o di Usucha, il padrone di casa offre la tazza all’invitato presentandogli sempre la parte più bella, che avrà cura di girarla in modo da non bere dalla parte migliore. La degustazione viene in genere preceduta, od accompagnata, dal Kaiseki, ed una volta terminata la cerimonia l’ospite ripone gli utensili, si inchina ai suoi invitati e quindi li congeda.
I tipici utensili per lo svolgimento della cerimonia sono diversi: il tè viene scaldato in un bollitore che prende il nome di kama; il kama viene scaldato sul Ro (fornace) ovvero una buca di forma quadrata ricavata su uno dei tatami, se la cerimonia si svolge d’autunno o d’inverno, oppure sul furo (braciere), che viene appoggiato direttamente sul tatami, se la cerimonia si svolge d’estate o di primavera. Il tè viene sbattuto con il chasen, un frullino in bambù che si usa per mescolare il tè con l’acqua bollente, mentre il tè viene poi versato nella chawan, la tazza dalla quale poi si andrà a bere (anche la chawan è in stile con la stagione attuale). Altri utensili sono il chashaku (cucchiaio in bambù per raccogliere il tè in polvere), il chakin (pezza di lino usata per pulire la chawan dopo averla lavata con acqua), le Hashi (bacchette di legno usate dagli invitati per servirsi di cibo e di dolci), il Chaki (recipiente per il tè), il Chashaku (cucchiaio di bambù, usato per prendere il tè dal Chaki e metterlo nella tazza).

Il tè utilizzato: il matcha

Lo svolgimento della cerimonia del tè avviene attraverso l’utilizzo di un tipo particolare, il Matcha. Si tratta di una tipologia di tè verde, ma che viene usato in maniera completamente diversa rispetto al solito. Ne esistono 2 varianti: una usata per il koicha (tè spesso) proveniente dalle foglie più giovani delle piante di età superiore a 30 anni, ed una usate per l’usucha (tè sottile) proveniente dalle foglie più vecchie delle piante di età inferiore ai 30 anni. Le foglie vengono triturate fino a polverizzarle, dopodichè vengono aggiunte all’acqua calda e mescolate con il chasen. Non si tratta quindi di un’infusione, ma di una sospensione solida in un liquido. In genere per il tè sottile viene usata in proporzione una quantità doppia d’acqua, risultando quindi più pastoso. Questo è il tè che, fin dai primordi, viene utilizzato per la cerimonia del tè; data la particolarità con il quale viene preparato, oltre che per il tipo di scelta delle foglie da raccogliere sulla pianta, fornisce un effetto molto più eccitante rispetto agli altri tè, tant’è che era proprio in questa forma che i monaci buddhisti ne facevano uso per favorire le meditazioni notturne. Il tè che se ne ottiene ha un tipico aspetto di colore verdognolo acceso, con la formazione di una leggera schiuma in superficie. Questo tè viene coltivato in luoghi di completa oscurità; questo conferisce al prodotto finale più vitamine, clorofilla e Sali minerali, oltre a fornire un sapore ed un profumo più erbaceo alla pianta.

matcha Il matcha



Cerimonia Cerimonia del tè, secondo lo stile ryaku-bon, che consiste in una forma semplificata della cerimonia. Questo stile fu ideato da Tetchū Sōshitsu (鉄中宗室), il cui nome monastico era Ennōsai. E' possibile vedere la classica posizione inginocchiata tenuta dalle donne durante la cerimonia del tè, con le punte dei piedi ad uscire leggermente a rientrare (i maschi in genere si siedono a gambe incrociate).



Info: Foglie Di Tè

 
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